Arduo trovare un flop di mercato come Lindstrom, in panca pure con l’Atalanta

La scorsa estate il Napoli ha attuato una strategia di mercato perlomeno discutibile. Forse l’aggettivo per qualificarlo meglio è confusionario. Lindstrom rappresenta il flop più rovinoso della campagna acquisti dei Campioni d’Italia: è stato pagato ben 30 milioni di euro all’Eintracht Francoforte. Per averlo in prestito oneroso a 5 milioni, con l’obbligo di riscatto a 25 milioni, compresi i tradizionali bonus vari e assortiti, che ormai non mancano mai in ogni contratto che si rispetti.
In virtù di questo importante investimento era inevitabile pensare che potesse, se non scalzare Politano dal ruolo di titolare indiscusso, almeno rappresentare un’affidabile risorsa per coprire lo slot lasciato libero in organico da Lozano. Insomma, dal danese, con un’abilità nei fondamentali sicuramente migliore rispetto al messicano, tutti si aspettavano una crescita costante e progressiva, tale da permettergli di acquisire un minutaggio sempre maggiore nel ruolo di esterno offensivo. E invece la sua stagione è stata completamente fallimentare.

Inevitabile, dunque, etichettarlo come un gigantesco errore di valutazione commesso dalla famigerata area scouting del club. Non nuova, in questa sciagurata annata post scudetto, a concludere affari discutibili, che hanno raggiunto il culmine con Natan e Cajuste. Trascurando il giudizio praticamente disastroso sul mercato di riparazione. Resta lì, infatti, la sgradevole sensazione che gli arrivi di gennaio abbiano conquistato lo status di palese inutilità.
Fragile emotivamente
Nel giudizio su Lindstrom pesa come un macigno la valutazione decisamente negativa della stagione degli azzurri. Nondimeno, se alla guida della squadra partenopea si sono alternati tre allenatori, con filosofie calcistiche profondamente diverse, relegando continuamente il danese il fondo alla panchina, allora un motivo dovrà pur esserci.

Effettivamente, resta intatta la sensazione che al di là della velocità, l’arma migliore del suo repertorio, associata però a un dribbling nient’affatto mortifero (spesso si accartoccia col pallone nei piedi), sia un calciatore con una certa fragilità mentale. Finora ha giocato titolare una sola partita in campionato, una oretta contro il Lecce. Poi soltanto apparizioni sporadiche in uscita dalla panchina. E mai come cambio primario. Spesso manciate di minuti da garbage time e poco altro. Briciole per incidere davvero, specialmente se ti buttano dentro in circostanze assai emergenziali, col risultato sfavorevole e la disperazione generata dalla necessità di ribaltare la deriva avversa presa dalla gara. Del resto, avere un grosso impatto, determinando da subentrato in corso d’opera, è una qualità che non tutti possiedono.
Insomma, uno così non può veramente contestare il posto a Kvaratskhelia e Politano. In molti sottovalutano l’importanza dell’ex Sassuolo, non soltanto all’interno dei meccanismi offensivi del Napoli. Perché in fase di non possesso collabora fattivamente, associandosi con Di Lorenzo sotto la linea della palla. Al contrario di Lindstrom: sia Garcia che Mazzarri imputavano al danese di interpretare con troppa leggerezza e superficialità le situazioni difensive. Calzona ha provato a spostarlo sul lato opposto, alter ego del georgiano, per favorirne gli strappi interni in conduzione giocando a piede invertito. Peccato che mancando il numero 77, contro l’Atalanta gli abbia preferito l’ectoplasmatico Raspadori. Una decisione che sa tanto di bocciatura definitiva.
Rimpianto Barcellona
Di fatto, le scelte di mercato di chi ha costruito il Napoli sono complessivamente censurabili. Magari nessuno della società partenopea si è accorto, nel visionare Lindstrom, che nel sistema di gioco dell’Eintracht si muoveva in una posizione centrale, piuttosto che aprendosi in ampiezza. Nel 3-4-2-1 di Oliver Glasner lavorava negli half spaces, alle spalle del centravanti, inserendosi in maniera rapida e istintiva in un contesto che tendeva a stimolare soprattutto le transizioni rapide. Gli azzurri sono abituati a esprimere un possesso qualitativo, nel tentativo di dominare gli avversari, ricorrendo a spostamenti codificati che il nuovo acquisto non è riuscito a metabolizzare.

E poi c’è la sliding doors con il Barcellona, che probabilmente avrebbe cambiato la sua stagione e quella di tutti i suoi compagni. Entrato a mezz’ora dalla fine, con gli ospiti in svantaggio di un gol, gli capita sulla testa la più classica occasione per pareggiare. Che ovviamente, fallisce clamorosamente a pochi passi da Ter Stegen. Il giorno dopo, la foto che lo ritrae abbracciato sconsolato al palo, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre intorno i compagni si mettono le mani nei capelli, diventa il simbolo dei rimpianti partenopei per una stagione incompiuta e maledetta.
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